Giovanni
Cosa vedi adesso?
Riesco a vedere la differenza tra il cielo e l’immobile che hai dietro le tue spalle. Dagli odori percepisco il pino marittimo sopra di noi anche se non riesco a vederne bene i dettagli.
Quand’è che ti sei accorto della tua malattia?
È una cicatrice che mi porto dietro da quel giorno. Lo ricorderò per tutta la vita, era il 31 gennaio 1996. Mi ero alzato nella mia cameretta con mio fratello gemello, omozigote, in tutto e per tutto uguale a me. Ero andato in garage a prendere la bicicletta, come facevo tutti i giorni per andare a scuola. Mentre pedalavo, mi sentivo un po’ strano. Qualcosa non tornava nel mio corpo. Però, lui era davanti, io pedalavo dietro, e siamo arrivati a scuola. Ero in prima fila e avevo il compito di latino alla prima ora, ho tirato fuori il bigino, cercavo il Somnium Scipionis di Cicerone per ripassarlo, ma non lo trovavo. Ho chiesto al mio compagno di banco perché avesse strappato le pagine, ma lui le vedeva, io no. Quindi sono tornato a casa, mia madre affettava il salame. “Mamma, lo sai che non ci vedo più bene?”, “Sarai stanco, vai a letto, riposati un po’”. E da lì è iniziato tutto.
Piano piano la vista peggiorava. Mia mamma è stata molto forte, però mi portava continuamente da un dottore all’altro. A un certo punto abbiamo provato anche con l’agopuntura, per un anno ogni giovedì sono uscito da scuola e ho preso il treno da Milano per Padova, una tortura in tutti i sensi, ma non succedeva niente. Avevo 17 anni.
A un certo punto è arrivata la diagnosi: neuropatia ottica ereditaria di Leber (LHON). È causata da una mutazione del DNA mitocondriale, quello che si eredita per via materna. Sono forse l’unico caso al mondo in cui, con un gemello omozigote, in me si è manifestata la malattia mentre in lui no.
Cos’è che ti ha salvato?
Sicuramente lo sport, il canottaggio. Era la mia passione. In coppia con Andrea, il mio gemello, praticavamo il 2- (due senza) a livello agonistico. Alla prima partecipazione al meeting nazionale di Piediluco, mi ricordo ancora: siamo partiti ultimi, a metà della gara eravamo nel gruppo e nei 500 metri finali abbiamo superato la canottieri Napoli e siamo arrivati primi. Un’emozione incredibile. Ma dopo quella gara sono stato male, il corpo sembrava non recuperare più. Una delle tante conseguenze delle malattie mitocondriali è lo stress ossidativo, l’accumulo di acido lattico, che può riguardare anche chi, come me, soffre di una neuropatia ottica e quindi, rispetto alle altre patologie, l’impatto è quasi interamente concentrato sul nervo ottico. Dopo quella gara ho provato a continuare con le competizioni agonistiche, ma non ce la facevo. Mi rendevo conto che lo sforzo era sempre più difficile da sopportare, i miei tempi di recupero erano troppo lunghi rispetto agli altri. Ma, anche se ho rinunciato all’agonismo, il canottaggio non l’ho abbandonato. La squadra, il gruppo, il senso di appartenenza, la natura, l’acqua, mi facevano star bene. Lo sport era la mia valvola di sfogo. Anche se non vedevo più bene, sentivo scorrere la barca sotto il mio carrello, sentivo le pale entrare in acqua all’unisono, era sempre un’emozione!
Che cosa rappresenta Mitocon per te?
È in assoluto un punto di riferimento per la mia vita, perché non è solo ricerca, non è solo speranza di guarire, ma è anche un’associazione che dà la possibilità di condivisione, dove si conoscono persone meravigliose, si raccontano le proprie storie. La vita è fatta di questo ed è un valore molto importante per me.
Cosa ti aspetti dal futuro?
In questo momento provo un cauto ottimismo. Penso che adesso ci sono degli strumenti tecnologici, una sete nel mondo della ricerca che non c’è mai stata in vent’anni, che riaccende in me una speranza che si stava un po’ spegnendo. Il vero messaggio, però, è che ognuno nella sua situazione deve trovare la sua serenità e il suo equilibrio, la vera ricerca per tutti!